(Uno sguardo geopolitico sulla disuguaglianza)
Sono usciti recentemente diversi studi, alcuni anche piuttosto accurati e complessi, sulla diseguaglianza sociale. l’attenzione da parte dei quotidiani economico-politici (Financial Times, Sole24Ore, Alphaville di FT) c’è, emerge la consapevolezza che il trend storico verso una forte disparità nella distribuzione del reddito e del potere d’acquisto, e una divaricazione estrema nelle possibilità di vita, possa essere pericoloso per la democrazia, e per lo stesso capitalismo.
In particolare MartinWolf (decano del FT) sembra trarre dalla ricerca di Walter Scheidel (“The Great Leveler: Violence and the History of Inequality From the Stone Age to the Twenty-first Century”, Princeton University Press 2017) una visione della storia, piuttosto cupa. La integriamo con alcune nostre considerazioni, tratte in particolare dalla lettura del World Inequality Report 2018 e focalizzate sul secolo breve e il lungo dopoguerra..
(a) La Pace non ti fa bene
Secondo la ricostruzione di Scheidel è un paradigma fondamentale della storia umana, sin dalla rivoluzione agricola del Neolitico: in tempo di pace e relativa stabilità sociale le elites possidenti possono conformare le strutture politiche e socioeconomiche in modo tale da assicurarsi una quota sempre crescente della ricchezza prodotta. il tetto è rappresentato dalla soglia minima di sussistenza per la forza lavoro, spesso toccata dalle società del mondo antico, comprese Impero Romano e Bisanzio. Il processo di concentrazione della ricchezza conosce delle interruzioni, e anche drammatiche inversioni, in fasi particolari della Storia. Si tratta dei quattro cavalieri dell’Apocalisse: Guerra, Rivoluzione, Carestia, Epidemie. Lo sconvolgimento prodotto dal cataclisma è tale che la società riparte da una tabula rasa che ignora costruzioni e convenzioni espresse dall’interesse della classe dominante. In particolare però le guerre comportano una particolare esigenza di mobilitazione e compattezza sociale e dunque un assetto più egualitario. Le rivoluzioni questo assetto lo teorizzano e lo istituzionalizzano. Esistono dunque inversioni più o meno caotiche, più o meno entropiche.
L’aspetto veramente perturbante della questione è che questo paradigma sembra reggere sia in riferimento all’Impero Romano che nella modernità, nel lungo dopoguerra novecentesco, ovvero
(b) La Democrazia non aiuta
Nel ‘900 rivoluzioni (Russia e Cina) e guerre mondiali generano la Grande Inversione del dopoguerra, la distribuzione del reddito e delle possibilità più egualitaria della storia, in Occidente e non solo. Alla fine degli anni’70 – con una accelerazione a partire dai ’90 – comincia la reastaurazione del paradigma, si inaugura un trend di aumento nella concentrazione della ricchezza tuttora pienamente in corso. Esistono importanti divaricazioni nell’intensità del trend, che ora metteremo a fuoco, ma la direzione è universale: è finita la guerra (sia il lascito egualitario del lungo conflitto mondiale 1914-45, sia la guerra fredda), ed è finita la rivoluzione, ovvero la pressione che il suo immaginario esercita sulle masse e sulle elites, sia dall’interno (movimenti anni’60-70) sia dall’esterno (dissoluzione del blocco sovietico, inizio anni ’90).
E’ forse la più costernante della quattro verità, perchè evidenzia l’impossibilità di fuoriuscire dal modello apocalittico, di invertire strutturalmente la storica tendenza alla disuguagianza sociale: si poteva ritenere che l’arsenale di misure per la mobilità sociale dispiegato dalla democrazia e socialdemocrazia soprattutto nella seconda parte del ‘900 – tra sistema fiscale, previdenza sociale, istruzione superiore di massa, università, sanità pubblica – avesse condotto a un punto di non ritorno, avesse sabotato definitivamente il paradigma, strutturalmente mutato i rapporti di forza, ma evidentemente non è stato così. E’ vero, naturalmente, che comunque i paesi a democrazia matura (con una importantissima eccezione) mantengono livelli di diseguaglianza enormemente inferiori a quelli prevalenti nel resto del mondo, per cui l’attuale inversione potrebbe essere anche l’oscillazione di aggiustamento di un nuovo trend millenario. Ma se passiamo dal profilo temporale a una analisi geografica l’inquietudine non diminuisce: l’eccezione cui ci riferiamo è l’India, democrazia settantenne (come quella italiana, molto più matura di molte democrazie europee: Spagna, Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria e tutta la “giovanissima” Europa centro-orientale), e paese di più di un miliardo di anime.
Si è detto per anni che l’esperimento indiano rivestiva un interesse speciale, perchè – come la Cina – conosceva una espansione economica e sociale senza precedenti, una ampia apertura all’economia mondiale (investimenti, tecnologia e commercio), ma in un contesto di libero confronto democratico. Si diceva che proprio per questo il miracolo economico indiano sarebbe stato più resiliente, perchè le tensioni socioeconomiche che la società cinese occultava e comprimeva sotto il controllo del partito unico là erano libere di esprimersi, confrontarsi e fare liberamente il loro corso nel gioco della democrazia. Scopriamo però che l’India quelle tensioni strutturali le conosce e le alimenta, le carica quanto e più che la Cina: il grado di diseguaglianza è molto simile, e soprattutto è tuttora in aumento (in Cina sembra essersi arrestato da un quindicennio).
Apparentemente il gioco democratico fallisce nel disinnescare allentare gestire le tensioni sociali.
Uno sguardo agli altri paesi del Bric sembra confermare questa conclusione: in Brasile il trend degli ultimi trent’anni (la democrazia è stata ristabilita a metà anni’80) è contrastato, ma il grado di disuguaglianza rimane tra i più alti del pianeta, ben superiore pure a Cina e India. In Russia gli anni ’90 hanno visto una vera esplosione della disuguaglianza, salita in pochissimi anni a livelli estremi (e del resto stava implodendo il paese stesso), prima di essere domata (ma solo in parte ridotta) da Putin: in questo caso il fallimento democratico appare così catastrofico da assumere un eminente profilo geopolitico (la dissoluzione delle Russia avrebbe potuto comportare la guerra civile in un paese disseminato di arsenali nucleari..).
(c) l’Europa ti fa(ceva) bene
E veniamo all’Europa. è stata l’Utopia realizzata (quasi) che ha sostituito il socialismo nel cuore di gran parte della sinistra post-89. E con qualche ragione, sotto il profilo di cui trattiamo: ci ricorda il WIR’18 che se in termini aggregati in Occidente la divaricazione torna a crescere a ritmo sostenuto a partire dal 1980, è negli Usa che il profilo è particolarmente accentuato, mentre in Europa (in particolare quella continentale) la curva è molto più piatta.
In Europa, non trattandosi di una entità politica compiuta ma in transizione, il discorso è più complesso e vengono in rilievo anche le comunità politiche, gli stati, oltre che le classi sociali. In questo senso, considerando alcuni paesi come elites dell’Unione, la tendenza alla concentrazione delle risorse è fin troppo noto e (vanamente) vexata quaestio e ne troverete anche su questa pagina ampia trattazione. nel corso degli anni. Apparentemente (post su Bruegel.org) la diseguaglianza di reddito tra i cittadini dell’Unione ha avuto una drastica contrazione nel periodo 1994-2008, quando si riuscì a supportare e integrare la difficile transizione (causò tracolli nel pil di quei paesi) all’economia di mercato. dal 2009 il dato appare stabile (presumibilmente la crisi nella periferia dell’Eurozona compensa la crescita nei paesi ex-comecon). Ma è aumentata, da quando è in corso l’austerity, la sperequazione tra regioni all’interno dei singoli stati dell’Unione (articolo Economist).
Il fatto è che quasi ogni riforma o disegno politico all’ordine del giorno nella UE va nel senso della concentrazione della ricchezza e delle possibilità di vita, che si tratti di deregolamentazione del diritto del lavoro, riforma fiscale o riforma della pubblica amministrazione e dei servizi erogati..
Quanto all’Eurozona, il sistema a moneta unica lavora per la divergenza tra le economie, a concentrare risorse e capitale nel centro (a guida tedesca) a scapito della periferia mediterranea (o atlantica: Portogallo, Irlanda). Non doveva essere una scoperta: le unioni monetarie funzionano così. Non a caso storicamente sono anche unioni politiche (fiscali) e integrano meccanismi compensativi su base geografica, più o meno intensivi (ne esistono anche negli Usa).
Si tratta naturalmente di logiche che esulano dal paradigma della disuguaglianza, eppure comunque parte dell’esaurimento del lungo dopoguerra: hanno a che fare con la conversione della logica europeista da progetto di integrazione e fusione delle sovranità nazionali al consueto confronto/concerto tra potenze nazionali, con la caduta del Muro e la transizione tedesca. Che è stata psicologica, prima che socioeconomica.
(d) La Globalizzazione è un problema
Si può dire che la globalizzazione è sicuramente il contesto, o anche un braccio della morsa a tenaglia che in occidente ha redistribuito dammaticamente il potere tra lavoro e capitale: la falla aperta dal libero trasferimento dei capitali ha svuotato le sovranità nazionali, portando il campo di gioco su un piano, quello globale appunto, per definizione non regolato e impolitico. La libera circolazione della manodopera (flussi migratori) dà solo un contributo secondario al cataclisma.
Ma su un piano globale la globalizzazione ha funzionato? Di sicuro ha impresso un forte aumento alla disuguaglianza nei paesi in via di sviluppo, mentre permetteva un fortissimo aumento della produzione, specie in alcune regioni. E’ vero che ha fortemente riequilibrato la distribuzione della ricchezza (reddito prodotto) tra le nazioni, ma all’interno di queste, tra le classi sociali, l’esito è molto più controverso – al punto che in certi casi il dato sull’output e il suo incremento non dice pressochè nulla sulla società sottostante e il suo benessere. Si va dalla Cina, dove – nonostante il forte aumento della disparità – masse enormi di decine, centinia di milioni di persone sono state sottratte ad analfabetismo e indigenza, all’India e al Brasile (dove si sono avuti risultati molto più limitati), ai paesi del Nordafrica e MO, in particolare l’Egitto – in cui decenni di crescita sostenuta del PIl non hanno toccato sostanzialmente nè le condizioni sociali del paese, se non (inutilmente) per piccolissime elites già molto ricche, nè la fragilità di una economia dipendente (travolta come un fuscello dal Quantitative Easing americano fino al collasso dell’inverno 2011).