Quattro verità spiacevoli

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(Uno sguardo geopolitico sulla disuguaglianza)

 

 

Sono usciti recentemente diversi studi, alcuni anche piuttosto accurati e complessi, sulla diseguaglianza sociale. l’attenzione da parte dei quotidiani economico-politici (Financial Times, Sole24Ore, Alphaville di FT) c’è, emerge la consapevolezza che il trend storico verso una forte disparità nella distribuzione del reddito e del potere d’acquisto, e una divaricazione estrema nelle possibilità di vita, possa essere pericoloso per la democrazia, e per lo stesso capitalismo.
In particolare MartinWolf (decano del FT) sembra trarre dalla ricerca di Walter Scheidel (“The Great Leveler: Violence and the History of Inequality From the Stone Age to the Twenty-first Century”, Princeton University Press 2017) una visione della storia, piuttosto cupa. La integriamo con alcune nostre considerazioni, tratte in particolare dalla lettura del World Inequality Report 2018 e focalizzate sul secolo breve e il lungo dopoguerra..

 

(a) La Pace non ti fa bene

 

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Secondo la ricostruzione di Scheidel è un paradigma fondamentale della storia umana, sin dalla rivoluzione agricola del Neolitico: in tempo di pace e relativa stabilità sociale le elites possidenti possono conformare le strutture politiche e socioeconomiche in modo tale da assicurarsi una quota sempre crescente della ricchezza prodotta. il tetto è rappresentato dalla soglia minima di sussistenza per la forza lavoro, spesso toccata dalle società del mondo antico, comprese Impero Romano e Bisanzio. Il processo di concentrazione della ricchezza conosce delle interruzioni, e anche drammatiche inversioni, in fasi particolari della Storia. Si tratta dei quattro cavalieri dell’Apocalisse: Guerra, Rivoluzione, Carestia, Epidemie. Lo sconvolgimento prodotto dal cataclisma è tale che la società riparte da una tabula rasa che ignora costruzioni e convenzioni espresse dall’interesse della classe dominante. In particolare però le guerre comportano una particolare esigenza di mobilitazione e compattezza sociale e dunque un assetto più egualitario. Le rivoluzioni questo assetto lo teorizzano e lo istituzionalizzano. Esistono dunque inversioni più o meno caotiche, più o meno entropiche.

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L’aspetto veramente perturbante della questione è che questo paradigma sembra reggere sia in riferimento all’Impero Romano che nella modernità, nel lungo dopoguerra novecentesco, ovvero

 

 

 

(b) La Democrazia non aiuta

 

Nel ‘900 rivoluzioni (Russia e Cina) e guerre mondiali generano la Grande Inversione del dopoguerra, la distribuzione del reddito e delle possibilità più egualitaria della storia, in Occidente e non solo. Alla fine degli anni’70 – con una accelerazione a partire dai ’90 – comincia la reastaurazione del paradigma, si inaugura un trend di aumento nella concentrazione della ricchezza tuttora pienamente in corso. Esistono importanti divaricazioni nell’intensità del trend, che ora metteremo a fuoco, ma la direzione è universale: è finita la guerra (sia il lascito egualitario del lungo conflitto mondiale 1914-45, sia la guerra fredda), ed è finita la rivoluzione, ovvero la pressione che il suo immaginario esercita sulle masse e sulle elites, sia dall’interno (movimenti anni’60-70) sia dall’esterno (dissoluzione del blocco sovietico, inizio anni ’90).
E’ forse la più costernante della quattro verità, perchè evidenzia l’impossibilità di fuoriuscire dal modello apocalittico, di invertire strutturalmente la storica tendenza alla disuguagianza sociale: si poteva ritenere che l’arsenale di misure per la mobilità sociale dispiegato dalla democrazia e socialdemocrazia soprattutto nella seconda parte del ‘900 – tra sistema fiscale, previdenza sociale, istruzione superiore di massa, università, sanità pubblica – avesse condotto a un punto di non ritorno, avesse sabotato definitivamente il paradigma, strutturalmente mutato i rapporti di forza, ma evidentemente non è stato così. E’ vero, naturalmente, che comunque i paesi a democrazia matura (con una importantissima eccezione) mantengono livelli di diseguaglianza enormemente inferiori a quelli prevalenti nel resto del mondo, per cui l’attuale inversione potrebbe essere anche l’oscillazione di aggiustamento di un nuovo trend millenario. Ma se passiamo dal profilo temporale a una analisi geografica l’inquietudine non diminuisce: l’eccezione cui ci riferiamo è l’India, democrazia settantenne (come quella italiana, molto più matura di molte democrazie europee: Spagna, Portogallo, Grecia, Polonia, Ungheria e tutta la “giovanissima” Europa centro-orientale), e paese di più di un miliardo di anime.

Si è detto per anni che l’esperimento indiano rivestiva un interesse speciale, perchè – come la Cina – conosceva una espansione economica e sociale senza precedenti, una ampia apertura all’economia mondiale (investimenti, tecnologia e commercio), ma in un contesto di libero confronto democratico. Si diceva che proprio per questo il miracolo economico indiano sarebbe stato più resiliente, perchè le tensioni socioeconomiche che la società cinese occultava e comprimeva sotto il controllo del partito unico là erano libere di esprimersi, confrontarsi e fare liberamente il loro corso nel gioco della democrazia. Scopriamo però che l’India quelle tensioni strutturali le conosce e le alimenta, le carica quanto e più che la Cina: il grado di diseguaglianza è molto simile, e soprattutto è tuttora in aumento (in Cina sembra essersi arrestato da un quindicennio).

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Apparentemente il gioco democratico fallisce nel disinnescare allentare gestire le tensioni sociali.

Uno sguardo agli altri paesi del Bric sembra confermare questa conclusione: in Brasile il trend degli ultimi trent’anni (la democrazia è stata ristabilita a metà anni’80) è contrastato, ma il grado di disuguaglianza rimane tra i più alti del pianeta, ben superiore pure a Cina e India. In Russia gli anni ’90 hanno visto una vera esplosione della disuguaglianza, salita in pochissimi anni a livelli estremi (e del resto stava implodendo il paese stesso), prima di essere domata (ma solo in parte ridotta) da Putin: in questo caso il fallimento democratico appare così catastrofico da assumere un eminente profilo geopolitico (la dissoluzione delle Russia avrebbe potuto comportare la guerra civile in un paese disseminato di arsenali nucleari..).

 

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(c) l’Europa ti fa(ceva) bene

 

E veniamo all’Europa. è stata l’Utopia realizzata (quasi) che ha sostituito il socialismo nel cuore di gran parte della sinistra post-89. E con qualche ragione, sotto il profilo di cui trattiamo: ci ricorda il WIR’18 che se in termini aggregati in Occidente la divaricazione torna a crescere a ritmo sostenuto a partire dal 1980, è negli Usa che il profilo è particolarmente accentuato, mentre in Europa (in particolare quella continentale) la curva è molto più piatta.
In Europa, non trattandosi di una entità politica compiuta ma in transizione, il discorso è più complesso e vengono in rilievo anche le comunità politiche, gli stati, oltre che le classi sociali. In questo senso, considerando alcuni paesi come elites dell’Unione, la tendenza alla concentrazione delle risorse è fin troppo noto e (vanamente) vexata quaestio e ne troverete anche su questa pagina ampia trattazione. nel corso degli anni. Apparentemente (post su Bruegel.org) la diseguaglianza di reddito tra i cittadini dell’Unione ha avuto una drastica contrazione nel periodo 1994-2008, quando si riuscì a supportare e integrare la difficile transizione (causò tracolli nel pil di quei paesi) all’economia di mercato. dal 2009 il dato appare stabile (presumibilmente la crisi nella periferia dell’Eurozona compensa la crescita nei paesi ex-comecon). Ma è aumentata, da quando è in corso l’austerity, la sperequazione tra regioni all’interno dei singoli stati dell’Unione (articolo Economist).

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Il fatto è che quasi ogni riforma o disegno politico all’ordine del giorno nella UE va nel senso della concentrazione della ricchezza e delle possibilità di vita, che si tratti di deregolamentazione del diritto del lavoro, riforma fiscale o riforma della pubblica amministrazione e dei servizi erogati..
Quanto all’Eurozona, il sistema a moneta unica lavora per la divergenza tra le economie, a concentrare risorse e capitale nel centro (a guida tedesca) a scapito della periferia mediterranea (o atlantica: Portogallo, Irlanda). Non doveva essere una scoperta: le unioni monetarie funzionano così. Non a caso storicamente sono anche unioni politiche (fiscali) e integrano meccanismi compensativi su base geografica, più o meno intensivi (ne esistono anche negli Usa).

Si tratta naturalmente di logiche che esulano dal paradigma della disuguaglianza, eppure comunque parte dell’esaurimento del lungo dopoguerra: hanno a che fare con la conversione della logica europeista da progetto di integrazione e fusione delle sovranità nazionali al consueto confronto/concerto tra potenze nazionali, con la caduta del Muro e la transizione tedesca. Che è stata psicologica, prima che socioeconomica.

 

 

(d) La Globalizzazione è un problema

 

Si può dire che la globalizzazione è sicuramente il contesto, o anche un braccio della morsa a tenaglia che in occidente ha redistribuito dammaticamente il potere tra lavoro e capitale: la falla aperta dal libero trasferimento dei capitali ha svuotato le sovranità nazionali, portando il campo di gioco su un piano, quello globale appunto, per definizione non regolato e impolitico. La libera circolazione della manodopera (flussi migratori) dà solo un contributo secondario al cataclisma.
Ma su un piano globale la globalizzazione ha funzionato? Di sicuro ha impresso un forte aumento alla disuguaglianza nei paesi in via di sviluppo, mentre permetteva un fortissimo aumento della produzione, specie in alcune regioni. E’ vero che ha fortemente riequilibrato la distribuzione della ricchezza (reddito prodotto) tra le nazioni, ma all’interno di queste, tra le classi sociali, l’esito è molto più controverso – al punto che in certi casi il dato sull’output e il suo incremento non dice pressochè nulla sulla società sottostante e il suo benessere. Si va dalla Cina, dove – nonostante il forte aumento della disparità – masse enormi di decine, centinia di milioni di persone sono state sottratte ad analfabetismo e indigenza, all’India e al Brasile (dove si sono avuti risultati molto più limitati), ai paesi del Nordafrica e MO, in particolare l’Egitto – in cui decenni di crescita sostenuta del PIl non hanno toccato sostanzialmente nè le condizioni sociali del paese, se non (inutilmente) per piccolissime elites già molto ricche, nè la fragilità di una economia dipendente (travolta come un fuscello dal Quantitative Easing americano fino al collasso dell’inverno 2011).

 

Aleppo sta cadendo

Aleppo sta cadendo. presa tra i due fuochi dell’offensiva ISIS e del martellamento delle forze di Assad, la roccaforte strategica dell’opposizione moderata è destinata ad essere travolta, e con essa – ricorda il report di International Crisis Group – ogni spazio per una possibile mediazione, soluzione politica del conflitto siriano e l’ultima possibilità per l’Occidente di avere una voce e un ruolo nel teatro di crisi. La città è ormai quasi isolata, presto il regime di Assad riuscirà a tagliare anche l’ultima linea di rifornimento e a chiudere Aleppo in un assedio che si ricolverà in un’altra catastrofe umanitaria e geopolitica. L’offensiva ISIS su Aleppo sta già travolgendo le forze curde, ben attestate sul resto del fronte (e, pare, in una tacita non-belligeranza con Assad), ma esposte in particolare in quella regione. molti villaggi e piccole città sono già caduti, si teme un massacro se cadrà anche Kobani. I Curdi del PKK, il vasto e agguerrito movimento di guerriglia irredentista del Kurdistan turco, premono per intervenire massicciamente nel conflitto, ottenere armamenti pesanti e il via libero delle autorità turche. La Turchia frena, per varie ragioni:

a) l’ISIS detiene 46 ostaggi turchi, dal giugno della presa di Mosul

b) Ankara teme una mobilitazione generale della nazione curda, che infiammerebbe aspirazioni indipendentiste e potrebbe travolgere la tela mediatoria imbastita in questi anni con lo stesso PKK

c) la Turchia fino a ieri aveva cooperato al jihad siriano e allo stesso sviluppo dell’ISIS, quantomeno aprendo le sue frontiere  siriane al passaggio  dei militanti jihadisti

non si capisce perchè l’Occidente abbia scelto di rappresentarsi la guerra siriana come un nodo inestricabile e intoccabile, in cui solo forse impresentabili (Assad, Al Qaeda, ISIS) hanno campo, per ritrovarsi ora con una situazione che invera quella rappresentzione. Si può ancora fare qualcosa, tra poco sarà troppo tardi.

il report di Crisis Group 

Kobani

Se l’Isis “vede” il bluff Saudita

Bennett-Jones ci propone sulla London Review of Books una notevole analisi comparata delle esperienze statuali dei vari movimenti jihadisti, con un focus particolare sull’ISIS (o IS) e le prospettive del Califfato. Ove si spiega perché la cosa più stupida ora sarebbe un intervento militare occidentale sul campo.

In sintesi gli aspetti notevoli messi in luce sono

  1. quando i jihadisti si costituiscono in forza politica territoriale, o qualcosa di simile a uno stato sovrano, tendono a dispiegare forze che li porteranno in breve all’autodistruzione.. sono (stati)costituzionalmente incapaci di mantenere il consenso iniziale, semplicemente perché in realtà non esprimono alcuna capacità di governare, a cominciare da sè stessi e dal caos di violenza e regolamenti di conti che li ha portati al potere. l’IS(IS) viene da una costola di Al Qaeda, da cui fu scomunicato anche per un uso troppo indiscriminato della violenza. appare opportuno mantenere la calma e sedersi sulla riva del fiume.
  1. quando parliamo di jihadisti in realtà si tratta quasi sempre di movimenti molto compositi politicamente e culturalmente, coalizioni di forze i cui obbiettivi spesso sono limitati al territorio del conflitto. Così è per lo stesso IS(IS), effettivamente. la resistenza a una forza di pacificazione/invasione occidentale non potrebbe che consolidare quella precaria alleanza.

Nello stesso Iraq settentrionale occupato dall’IS(IS) operano forze laiche, contrarie alla prospettiva di un califfato, insorte più che altro in opposizione al corrotto e settario governo di Al Malii e favorevoli a una partizione (ed eventuale ricomposizione confederale) dell’Iraq in tre parti.

Per la verità operano anche forze e pressioni esterne, a cominciare dalle compagnie petrolifere occidentali che ora hanno scelto di trattare direttamente con la regione (o repubblica semi-indipendente) del Kurdistan iracheno (KRG).

  1. il pericolo di un “ritorno di fiamma” terrorista, del ritorno in patria di militanti occidentali con propositi di esportazione terrorista del jihad nelle nostre città appare più limitato di quanto si pensi. di fatto il ritorno è quasi sempre un abbandono del jihad

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questa la ricostruzione, in estrema sintesi, di Bennett-Jones.

Per parte nostra tracciamo due scenari da tenere sott’occhio, in filigrana al Califfato.

uno è lo svilupparsi di un vasto movimento di ristrutturazione delle sovranità, della mappa geopolitica tra Mediterraneo e Golfo, tendente a stabilire          

a) una patria Curda tra Turchia, Iraq, Siria, Iran, a partire dal nucleo attuale del KRG e di una intesa  Curdi-IS(IS) su parti di territorio siriano

b) un territorio sunnita (attualmente in mano all’IS(IS)) tra Siria e Iraq centrale

c) un’entità sciita nel sud iracheno, destinata a ricongiungersi con Teheran

ipotesi disturbante per Riyad, che si troverebbe l’Iran alle porte (avendo al suo interno, e proprio nel territorio che ospita i più grandi giacimenti petroliferi, una forte minoranza sciita).

l’altro scenario è invece proprio terrorizzante, per i Sauditi.

Riyad, l’Arabia Saudita è inevitabilmente il Sacro Graal di un po’ tutte le tensioni che attraversano il grande Medio Oriente. La stessa corsa iraniana al nucleare è interpretata come una partita per l’egemonia nel Golfo Persico e il controllo, più o meno indiretto, delle immense risorse saudite (e della capacità di riserva, che fa di Riyad una sorta di Banca Centrale Globale del petrolio, in grado di “allentare” in qualsiasi momento le tensioni sui mercati dell’energia, aprendo i rubinetti), nonché della leadership OPEC. La stessa faglia religiosa Sciiti/Sunniti si può leggere come contrapposizione irano-saudita.

Non sarebbe la prima volta che nel grande Medio Oriente assistiamo a una storia di apprendisti stregoni: l’Iraq di Saddam, copiosamente finanziato e scagliato (nel 1980) contro l’Iran rivoluzionario da Riyad, nel 1990 avrebbe rapidamente travolto la monarchia saudita se gli Usa, supportati da una vastissima coalizione politica (che arrivò a comprendere la stessa Urss di Gorbaciov-Shevardnaze), non fossero prontamente intervenuti. Fu messa alla prova la dottrina Carter, enunciata nel ’79 e all’epoca apparentemente rivolta ai Sovietici (o agli Iraniani) e l’Iraq fu travolto e annientato. E’ chiaro e fu allora verificato che qualsiasi attacco militare di tipo convenzionale, da parte di una entità statuale e di forze armate regolari in campo, esporrebbe quel paese alla reazione di un enorme dispositivo di difesa aeronavale (di garanzia geopolitica, potremmo dire): la Quinta Flotta americana di stanza, con portaerei e tutto, nel vicino Bahrein, e tutto l’apparato (altra flotta e altra portaerei) dislocato nell’Oceano indiano.

Photo taken 12 May 1979 of President Jimmy Carter

I talebani e lo stesso Bin Laden e tutto l’islam iperconservatore esportato dai Sauditi e incubato in Pakistan, già combattenti della libertà in funzione antisovietica, si rivelarono un cattivo investimento per gli Usa: Al Qaeda, tra altre cose, rappresentò – se pure questo non è molto presente ai non addetti ai lavori – un secondo tipo di strategia per la presa di Riyad: la cospirazione terrorista, la guerra asimmetrica. Ebbe un acuto nel 2006 con l’assalto alla grande raffineria di Abqaiq, «il più vulnerabile e spettacolare obiettivo del sistema petrolifero del paese», secondo l’ ex agente della Cia, Robert Baer – ma di fatto fu respinto o comunque circoscritto e isolato anche quello.

La minaccia rappresentata dall’IS(IS) è però di altra natura, rispetto a quella convenzionale di uno stato sovrano con proprie forze armate, e rispetto alla galassia terrorista di Al Qaeda. Ha una qualità ibrida, e soprattutto ha una natura, una consistenza politica, in molti sensi. per questo può essere molto insidiosa.

l’IS(IS) è stato considerato da praticamente tutti gli osservatori qualificati fino ai primi di agosto un fenomeno senza una una reale consistenza militare: non si tratta che di poche migliaia di uomini, si è detto, per quanto addestrate nella spaventosa guerra civile siriana (e prima ancora in quella irachena, da cui viene l’organizzazione e il suo leader). In realtà hanno mostrato una notevole capacità di sorprendere: dagli analisti della grande stampa internazionale ai blog specializzati in materia strategica, ai siti di intelligence professionali,  fino all’intelligence vera e propria (perchè è indubbio che gli stessi americani son stati sorpresi e son dovuti correre tardivamente e poco efficacemente ai ripari: loro stessi ammettono esplicitamente che l’intervento aereo non solo non è risolutivo, ma “I in no way want to suggest that we have effectively contained or that we are somehow breaking the momentum of the threat posed by IS(IS).”, dice Mayville,  responsabile delle operazioni del Pentagono nel teatro di guerra), tutti sono rimasti spiazzati dall’offensiva d’agosto. E ora riconoscono che le forze dell’IS(IS):

a) dispongono ora di armamenti pesanti sofisticati in grande quantità (questo in realtà era già ben noto, dopo che l’esercito iracheno si era liquefatto a Mosul lasciando sul campo una panoplia di sistemi d’arma), diversamente dai peshmerga curdi, che scontano la “saudizzazione” (già) del Kurdistan iracheno, cioè le debolezze tipiche degli stati petroliferi (economia dipendente, forze armate di mercenari poco o nulla motivate, vasta corruzione)

 b) mostrano una notevole (inattesa) capacità di dispiegare offensive su più direttrici contemporaneamente, e di sviluppare sul campo tattiche piuttosto sofisticate, con diversioni e tutto

 c) rivelano una grande capacità di ridislocare l’armamento sui fronti dove è necessario

Detto questo, dalla strategia dispiegata in questi mesi si vede come l’IS(IS) eviti accuratamente il confronto con entità politiche e società coese (fino a ieri il KRG – Kurdistan iracheno, ma anche il sud sciita, e a maggior ragione Turchia, Iran, e la stessa Giordania – in sé fragile e minata, ma potrebbe coinvolgere Israele) e affondi, lanci delle OPA su società fallite, come appunto l’Iraq sunnita.

Di fatto ha costituito un embrione di stato, che si vuole califfato.

L’IS(IS) non è (ancora?) uno stato e non è più una semplice organizzazione terrorista. Rispetto a un arcipelago terrorista come Al Qaeda, e allo stesso “talibanistan” afgano, ha messo in evidenza una diversa qualità nell’azione di “nation building”, sembra stia sviluppando funzioni di governo del territorio di una certa consistenza e soprattutto ha messo in mostra una notevole presa sulle risorse petrolifere del territorio, una discreta capacità di (ri)costruzione delle filiere energetiche e commerciali – se pure nella forma decisamente  limitata (nell’accesso a capitali, tecnologie  e know-how) che lo status (di organizzazione terroristica) consente.

Questa capacità di (ri)stabilire canali e flussi petrofinanziari (con i quali alimentare una embrionale amministrazione del territorio) è però, oltre che in sé limitata, di breve respiro, destinata a deteriorarsi e collassare in tempi relativamente brevi, se non ci sarà il salto di qualità alla condizione (e legittimità) statuale vera e propria.

Rimane che comunque, allo stato, e se pure con prospettive molto incerte, l’IS(IS) sembra disporre di flussi finanziari notevoli, rispetto a una comune organizzazione terrorista. Questi possono essere convertiti in una notevole capacità militare (come sembra evidenziare la riuscita offensiva parziale contro i Curdi), ma può rappresentare anche una risorsa (geo)politica. O anche evidenziare una notevole sapienza politica.

Questo è uno degli aspetti più interessanti del fenomeno: le direttrici di espansione militare e le stesse “relazioni internazionali” dell’IS(IS) appaiono sapientemente orchestrate per garantire all’organizzazione un adeguato sfruttamento delle risorse petrolifere del territorio. Ma si potrebbe capovolgere il ragionamento e vedere un disegno ancora più politico: l’utilizzo in chiave geopolitica delle risorse petrolifere, per garantire la sicurezza del territorio e dell’organizzazione.

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E’ noto che una parte del petrolio estratto dai territori siriani sotto controllo IS(IS) è stato utilizzato per trattare con Assad e ottenerne una sorta di non belligeranza. Questo ha consentito all’organizzazione di dedicare risorse alla resa dei conti con altre forze della “resistenza” siriana fino ad assicurarsene l’egemonia.

il Kurdistan iracheno non solo è stato rispettato (fino a ieri) ma anche utilizzato, avvalendosi di uomini d’affari della regione curda per intermediare il contrabbando petrolifero necessario a dare sbocco alla produzione dei territori iracheni. E d’altra parte, il Kurdistan non aveva dato alcun esito alle ripetute richieste del governo centrale di Bagdad (nè alle più discrete, o ambigue, pressioni americane) per un intervento contro l’invasione/insurrezione dell’IS(IS).

Un altro aspetto cruciale della natura politica dell’IS(IS), della sua minaccia su Riyad, è quello “interno”. Secondo alcuni osservatori non solo tende a costituirsi come forza e struttura statuale, ma – aldilà della spaventosa violenza settaria messa in mostra anche con la presa dell’Iraq centrosettentrionale – tende a porsi come forza rivoluzionaria, di eversione sociale oltre che di mobilitazione religiosa, e in questo pare orientata a superare la fitna, la faglia sunni-sciita, per coinvolgere anche le forze potenzialmente insurrezionali dello sciismo (ed è noto che l’Arabia Saudita ospita una nutrita minoranza sciita, da alcuni anni piuttosto inquieta).

Questa tesi è sostenuta da Marek Halter su Repubblica con molta chiarezza: “Infatti, con il califfato si aboliscono le frontiere politiche e si ritorna all’idea originaria dell’Islam, dove i ricchi saranno costretti a spartire i loro beni con i poveri e dove sarà la religione a risolvere ogni problema. È un’idea seducente, che piace a molti. Per metterla in opera, Al Baghdadi e i suoi hanno capito che è necessario superare la guerra tra sciiti e sunniti, e hanno perciò creato brigate sciite che marceranno assieme ai sunniti, scongiurando il rischio di provocare un’ennesima fitna, una guerra civile tra musulmani”.

Ma è confermata da altri osservatori.

Ora, è evidente che in questa analisi mettere a fuoco le debolezze e le contraddizioni strutturali, le faglie sociaeli dei possibili teatri di guerra (civile, asimmetrica..), degli antagonisti/obbiettivi geopolitici del neoCaliffato, è almeno altrettanto importante che delineare le capacità e i punti di forza dell’IS(IS): perchè la vera forza dell’IS(IS) è la debolezza interna che mina questi paesi-obbiettivo, e l’intelligenza politica che questa debolezza vede, conosce e innesca.

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La questione sull’Arabia Saudita e la non sostenibilità della sua economia è, come si suol dire, vaste programme,  sicuramente una delle diramazioni di questa analisi, cui riservare uno studio a sè – ma si può tranquillamente dire che Riyad sta cadendo a capofitto nel cannibalismo delle sue stesse enormi risorse.

E’ noto che il re anestetizzò prontamente le tensioni che emergevano nel paese durante la primavera araba del 2011, provenienti da una dinamica demografico/economica non troppo dissimile da quella egiziana (espansione demografica incontrollata, economia sottosviluppata e incapace di integrare le nuove generazioni istruite, consumi energetici interni spaventosamente fuori controllo e che ormai intaccano pericolosamente l’export e dunque il flusso finanziario che droga costantemente l’economia, anzi la società) attingendo massicciamenti ai flussi e fondi petrofinanziari per una sorta di quantitative easing sociale a base di drastici aumenti di stipendio e assunzioni nell’amministrazione.

Flussi che sono ora stabilmente dedicati all’anestesia sociale del paese, non certo al suo sviluppo (se si eccettua un discreto piano per lo sviluppo del nucleare civile (?), utile a recuperare almeno una quota del cannibalismo energetico del paese e dunque della rendita).

Scopriamo anche, in questo sguardo dal ponte sulla latente crisi saudita, che in realtà il reddito medio è tut’altro che svizzero, molto più modesto di quanto comunemente si pensi.

Ora, senza toccare la questione sciita in sottofondo (già oggetto delle attenzioni dell’intelligence di Riyad), e senza approfondire la situazione socioeconomica del paese, è comunque evidente che esista una soglia del dolore incorporata nelle quotazioni petrolifere, per Riyad: sotto un certo prezzo quei flussi anestetici non son più disponibili. con quel che può conseguire in termini di destabilizzazione o vulnerabilità del paese.

In effetti l’IS(IS), notoriamente finanziato massicciamente da donatori (e anche in parte costituito da volontari) sauditi, è servito decisamente allo scopo: come han riconosciuto quasi tutti gli osservatori sin dai primi di giugno, la caduta di Mosul e la presa di gran parte dell’Iraq centrale e settentrionale da parte di una forza comunque destinata a rimanere (come parte di una guerra civile permanente, se non come vero e proprio neostato), se nell’immediato non ha significativamente intaccato l’export petrolifero della Mesopotamia (proveniente in larga parte dal sud sciita e in più piccola quota dal KRG curdo, che anzi ha visto rilanciate le proprie capacità di export e la credibilità agli occhi dei grandi investitori petroliferi), ne ha comunque compromesso stabilmente per molti anni la capacità di attrarre investimenti. Quegli investimenti incorporati nelle (cioè indispensabilmente connessi alle) previsioni di formidabile espansione estrattiva da anni formulate per il paese tra i due fiumi.

Mentre infatti sono convogliate immense risorse finanziarie nei progetti di estrazione non convenzionale (shale oil, artico, sabbie bituminose, pre-salt brasiliano..) è dall’Iraq che si aspetta la gran parte dei nuovi flussi di petrolio sicuro e a basso costo (diretto concorrente di quello saudita dunque).

E d’altra parte non è mai molto chiaro in questi casi chi gioca e chi è giocato: Riyad può ben aver scatenato l’IS(IS) contro la rinascente potenza petrolifera irachena a egemonia sciita, ma ora sembra sia l’Iran ad aver lasciato via libera agli uomini del califfato nella regione dell’Anbar e verso la frontiera con l’Arabia Saudita. E la massiccia smobilitazione delle forze regolari di Bagdad da quel confine è stata davvero una spontanea diserzione di massa, o non piuttosto l’esecuzione di ordini del centro?

Di sicuro un brivido è corso lungo la schiena ai principi sauditi, che sono corsi ai ripari, inviando trentamila uomini alla frontiera. Una mobilitazione così imponente come non si verificava dall’agosto 1990 di Saddam.

Ma l’aspetto più interessante è che contestualmente Riyad abbia chiesto di inviare truppe all’Egitto e al Pakistan, calibani del Prospero saudita (che però rischia di essere veramente alla sua ultima Tempesta).

L’insediamento di al Sisi, e la relativa normalizzazione di un Egitto che minacciava di diventare un po’ troppo “movimentista”, è notoriamente considerato un capolavoro dei Sauditi. Quanto al Pakistan deve a Riyad quantomeno il suo arsenale nucleare, di fatto nucleare saudita delocalizzato.

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Questo segnala con la massima evidenza la debolezza di un regime, quello di Riyad, che può contare su un apparato militare debole e poco affidabile (composto di mercenari) ma probabilmente anche il timore del contagio ..contagio per vie claniche nelle tribù del nord prossime al confine e contagio nelle stesse forze militari.

La condizione di petro-stato, e le inerenti debolezze economiche e sociali, sono state in questi giorni chiamate in causa per spiegare la sorprendente fiacchezza di una società e di un apparato militare (i peshmerga del Kurdistan iracheno) che si riteneva tra i più coesi e agguerriti della regione e ha capitolato nei giorni dell’offensiva IS(IS) senza quasi offrire resistenza, finchè l’intervento aereo Usa non ha raffreddato la spinta (ma in nessun modo compromesso le capacità strategiche) degli uomini di Al Baghdadi. Ma ovviamente l’Arabia Saudita è il petrostato per antonomasia, e il KRG può almeno contare su una coesione nazionale e nazionalista da contrapporre a un sunnismo arabo storicamente oppressivo per i Curdi.

Argo (verso una non-recensione)

 

 

“il più grande degli ex-presidenti”

Si è detto di Carter, e già la definizione, nell’intreccio di beffa e malinconia, racconta quel passaggio cruciale della recente storia americana.

Perché Argo è, in effetti, anche un film sulla presidenza Carter, la crisi degli ostaggi un po’ un High Noon nero dell’America in crisi, senza riscatto né verità.

Gli anni ’70 sono un decennio campale per gli Stati Uniti, aprono il secondo tempo della superpotenza americana. Si aprono con la disfatta indocinese, continuano con la guerra del Kippur – che, aldilà dell’evanescente esito militare, segna una rottura non più governabile nel perimetro di equilibri e compensazioni intraoccidentali, o della mera forza militare di Israele, e il coinvolgimento a pieno titolo dell’Unione Sovietica nel teatro di crisi – e la nascita dell’Opec come attore geopolitico, l’embargo petrolifero, la crisi energetica.

teheran

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le Istruzioni – presidenziali Usa 02

 
a) Certo che è stata una campagna molto sofferta, ed è andato tutto bene. Ma andare in depressione post-partum dopo le presidenziali è comunque eccessivo.

b) Hai fatto i soldi scommettendo forte su “Obama presidente” con Intrade, alla faccia dei fessi che lavorano per il solito misero stipendio. Magnifico. Ma se sei Mitt Romney non è il caso di vantarsi con gli amici.

c) E’ vero, il presidente rimane alla casa Bianca, e il Congresso è sempre metà democratico metà repubblicano. Se mamma ti chiede di spiegarle cos’è successo in America dille che il mandato è di otto anni.

d) No, Hillary non si è dimessa per partecipare alle primarie del PD

e)  La coalizione progressista che lotta per imprimere una svolta rooseveltiana agli Usa nei prossimi decenni contro il blocco conservatore che sogna un ritorno all’iperpotenza globale. Ma vuoi mettere con il video della Annunziata che dà del cretino a Ferrara?

La nuova vita dell’ape regina – gli Usa da hub(ris) imperiale a primus inter pares [parte prima]

 

 

 

E’ una sofferta ripresa economica (dopo le false partenze del 2010, 2011 e di quest’anno), o una grandiosa metamorfosi geopolitica, quella che si delinea dalle nostre carte, dalla costellazione dei trend economico-finanziari?

 

 

La ripresa certo si profila, sostenuta da importanti mutamenti strutturali (recupero dell’immobiliare, rinascita della manifattura, boom degli idrocarburi), ma proprio da questi emerge una diversa rappresentazione del ruolo globale degli Stati Uniti, destinata ad affermarsi nel corso dei prossimi decenni. La transizione è però già in corso. Continua a leggere

“Langley, abbiamo un problema” – guerra di ideologie e ideologia di guerra nell’ombra della campagna presidenziale

Hillary ha disinnescato la bomba, poche ore prima dello showdown (il confronto Obama-Romney di Long Island): la responsabilità è mia. Sono insistenti i rumors a Washington, secondo cui il segretario di Stato intenderebbe comunque lasciare al termine del mandato, tra pochi mesi – e dunque, come interpretare un passo così forte e così preciso, provvidenziale nella tempistica.. Avevamo letto la trascinante prova oratoria di Bill Clinton a sostegno del presidente (convention di Charlotte) come parte del Grand Bargain all’origine dell’avventura obamiana (“a te il nostro pieno appoggio, a Hillary il Dipartimento di Stato come trampolino per la nomination democratica al termine del tuo mandato presidenziale”). Un accordo che sconta appunto la conferma del presidente. In questa prospettiva assumersi la responsabilità di un errore, e il suo costo politico, aveva chiaramente il senso di un investimento – se così non è, la chiave di lettura è diversa e forse una più drammatica, e cupa. Continua a leggere

chi ucciderà Liberty Valance

 

Forse è una questione di estetica. Appartiene all’estetica popolare americana che ci sia un giovane avvocato idealista venuto dall’est, con le idee giuste per raddrizzare (salvare) questo fottuto paese (il Gran Paese), e che qualche figlio di puttana senza scrupoli ma con forti appoggi si metta sulla sua strada, per farlo fuori e impedire il cambiamento. E che ci voglia un altro son of a bitch, un outlaw hero, per rimettere le cose nel loro giusto corso, e si compia il Destino Manifesto.

 

 

 

Al momento la stella del presidente è nella polvere, il confronto di Denver è stato (non)gestito in maniera disastrosa e ha generato la più drammatica inversione di tendenza che si ricordi nella storia televisiva delle presidenziali (il primo scontro diretto fu nel 1960). Continua a leggere

carobenzina – le istruzioni

  1.     No, non puoi emettere futures sulle taniche di benzina che hai nel garage. Non ancora.
  2.     Fare benzina all’iperCoop ti farà risparmiare sul pieno. Se abiti all’iperCoop.
  3.     E’ inutile che te la prendi con l’Iran, il petrolio ha perso il 40%: la differenza serve a ripagare il debito
  4.     Che nel frattempo è aumentato, a causa dello spread: gli investitori sono preoccupati per i costi dell’energia.
  5.     La decrescita felice? E allora perché si chiama Depressione? Prova col Prozac.

a margin call

 

 

 

In mercati finanziari ad alto leverage e su piattaforma telematica come quello dei futures petroliferi, le transazioni sono costantemente intermediate e garantite da una clearing house, che assume il ruolo di controparte in ogni transazione (proprio per garantire il regolare funzionamento del mercato, aldilà di possibili default degli investitori). Quando le perdite di un investitore rischiano di coprire l’intero valore del margine depositato presso il broker, questo opera un margin call. Si richiede cioè all’investitore il deposito di un margine supplementare per garantire le proprie posizioni, diversamente queste saranno liquidate unilateralmente dal broker.

 

Decifrare uno scenario geopolitico in filigrana ai trend, sia pure trimestrali, dei mercati petrofinanziari è sicuramente un’operazione complessa e ad alto rischio..

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Il future di un’illusione

The kingdom does not disclose data about the level of storage, but there are anecdotal signs of stockpiling, according to western officials. Saudi has been producing 9.8m-10m barrels a day, the highest level in 30 years. Yet, supply to the market – exports and domestic consumption – appears to be a notch below current production, at about 9.4m-9.6m b/d, western officials say. The difference could be heading into storage.

Riyadh stocks crude oil in massive tank farms in the main European trading hub of Rotterdam, near its biggest Asian customers in Japan’s Okinawa and in the Egyptian oil export port of Sidi Kerir. In total, Riyadh has permanent access to about 12m barrels of storage, split among the three locations. In addition, the country could lease storage in the same locations or elsewhere if necessary.

The roughly 12m barrels of storage capacity allow Riyadh, in theory, to manage a 30-days surge in exports of 400,000 b/d releasing stocks without having to boost its production. Because the storage tanks are very close to the main importing countries, the impact of a release would be much larger than the headline number suggests.

 

ft Commodities Note  March 14, 2012

 

 

 

 “This is the first time in several years for [Saudi Arabia] to hit the market with such volume – and in such a short time frame,” says Omar Nokta, a shipping expert at specialist investment bank Dalham Rose & Co.

Last week, Vela, the shipping arm of Saudi Aramco, hired over a few days 11 so-called very large crude oil carriers, each capable of shipping 2m barrels, to deliver to US-based refiners. “In 2011, Vela fixed one VLCC to the US every other month,” Mr Nokta says.

 

ft Commodities Note  March 19, 2012

 

 

 

Ovvero a che gioco sta giocando l’Arabia Saudita?

Quando parliamo di petrolio, e in particolare di prezzo del greggio, stiamo in effetti parlando di scelte saudite, soprattutto quando i margini di mercato sono esigui ed è l’offerta a fare il prezzo. L’Arabia saudita è quel margine, controlla quasi interamente la capacità di riserva OPEC (e in effetti globale), è cioè l’unico produttore in grado di immettere sul mercato un surplus estrattivo in tempi molto brevi. E’ in effetti, assieme alla Fed, la banca centrale del mondo: mentre quella controlla nei flussi monetari le dinamiche del credito, dei tassi d’interesse, del cambio (del dollaro, cioè della valuta utilizzata in gran parte dei traffici commerciali, energetici, finanziari), del valore delle riserve detenute dalle altre banche centrali, e dell’inflazione (non solo negli Usa), Riyad può allentare i mercati dell’energia (l’energia fossile) attraverso i flussi petroliferi.

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Iran – Crimini e Misfatti

Apparentemente i Sauditi si stanno svenando per sostenere l’offerta di petrolio, e abbattere il prezzo. L’esito appare nullo, o controproducente, eppure il prezzo del petrolio deciderà molto probabilmente della guerra o della pace nel Golfo Persico, da qui ai prossimi mesi – tra giugno e novembre.

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Tutti gli uomini (e le donne) del presidente

Il comandante dietro le quinte

La cifra della presidenza Obama (o almeno del suo primo tempo, se di questo si tratta) rimarrà negli annali il “leading from behind”. E’ una definizione coniata con riferimento alla politica estera e di sicurezza nazionale, ma la gestione dell’economia, per sua natura e tempi, ricade molto più sotto il dominio del legislativo, per cui si è dovuto fare i conti anche con rapporti forza parlamentari sfavorevoli al presidente (soprattutto dalle elezioni di mid term, un anno fa). Da un elenco dei collaboratori e consiglieri economici che si sono avvicendati nelle posizioni chiave si sviluppa così il profilo di una presidenza, di una impresa politica, con le sue ambizioni, le sue battaglie, le sue cadute, i punti di resistenza, e le sue speranze. Continua a leggere

Nel Ventre del Dragone

squilibri e motori della transizione cinese

Immaginate un vasto fiume tranquillo, il fragore lontano delle cascate. In queste acque procede una grande nave, come un transatlantico. La prua è rivolta a valle, ma è in corso la manovra per invertire la rotta. Per la gigantesca stazza della nave, e la complessa potenza delle macchine, l’operazione è estremamente lenta e delicata. Non v’è alcun dubbio che la potenza dei motori avrebbe facilmente ragione della corrente avversa, una volta correttamente orientata: l’incertezza è tutta nella difficoltà della manovra, l’inerzia della grande nave è tale che una troppo brusca virata farebbe perdere il controllo del timone, causare il naufragio che si vuole evitare. La manovra procede con estrema lentezza, il ruggito della cascata aumenta.

Questa è forse la condizione della Cina, vasta nave, del suo sistema finanziario reale (ben più intricato di quello ufficiale) – complesso motore che rischia di portare il paese attraverso gravi squilibri fino all’erompere di una o più bolle speculative.

Noi scendiamo in sala macchine, a vedere come stanno le cose.

Quando si parla di squilibri nell’economia cinese si pensa quasi sempre al tasso di cambio (sulla cui gestione si concentrano rimostranze e pressioni occidentali, soprattutto di Washington), o al tasso d’inflazione (oggetto delle preoccupazioni cinesi).  E’ in corso da alcuni anni (ma con particolare intensità da questa primavera) tra gli addetti ai lavori un serrato dibattito sulla presenza nel tessuto economico cinese di importanti bolle speculative, ovvero di altre e più profonde distorsioni strutturali nella allocazione delle risorse – di questi scompensi i profili di cambio e prezzi sarebbero in parte causa, in parte sensore.

I focolai sembrano molteplici:

_ recentemente hanno suscitato una certa inquietudine report ufficiali e analisi delle banche d’affari sulla finanza delle amministrazioni locali. Se il National Audit Office (NAO) cinese parla di circa 10.700miliardi di renminbi (rmb), pari a un sostenibile 27% del Pil, gli analisti di Standard Chartered – banca d’affari focalizzata in particolare sull’estremo oriente – “vedono” un ammontare decisamente superiore (altri 4mila mld di “credito informale”). Non si tratta tanto del valore, assoluto o in rapporto al Pil, quanto dell’opacità e fragilità del sistema finanziario su cui il debito insiste. Il tasso di interesse praticato dalle banche sul credito “periferico” è stimato a un 6% medio, molto superiore al tasso ufficiale del 2%, che vige per il debito del governo centrale. Considerato il profilo delle scadenze la pressione sulle amministrazioni locali è già opprimente (un 21% delle entrate solo per pagare gli interessi, quest’anno), ma destinata ad arrivare a livelli drammatici nei prossimi due-tre anni. In realtà già Shanghai e lo Yunnan hanno fatto presente di avere capacità di onorare solo il pagamento degli interessi. Un aspetto particolarmente preoccupante è che proprio il credito informale, di cui il NAO non tiene conto, appare il più inaffidabile e privo di collaterale. A questo si aggiunge che la stretta in corso sul credito, parte essenziale della manovra del governo volta a prevenire/assorbire bolle speculative e inflazione, colpisce in particolare province, città e imprese medio-piccole. Quasi sicuramente il bilancio nazionale dovrà farsi carico di una parte importante del debito periferico, se non vuole correre il rischio di insolvenze generalizzate in grado di minare la credibilità del sistema bancario.

_ il credito alle grandi opere infrastrutturali (ferrovie, autostrade, aeroporti, interi quartieri e città..) e all’industria pesante opera al di fuori di ogni regola di mercato, potendo attingere al vasto bacino del risparmio a tassi amministrati, estremamente e artificiosamente bassi.  E’ soprattutto in questo snodo che si vede chiaramente la presa politica sull’economia, il ruolo demiurgico del partito comunista nel plasmare e orientare la formidabile crescita cinese, e dopotutto deve essere stato fatto un buon lavoro se i risultati sono quelli che tutti sappiamo: è sicuro che si deve all’esistenza e alle prospettive di sviluppo di vaste e moderne reti infrastrutturali se la Cina ha attratto in questi decenni tanta parte dei flussi globali di investimento diretto, ed è diventata “la fabbrica del mondo”, ma alcuni economisti puntano il dito su autostrade deserte, aeroporti nuovi di zecca e rimasti intatti, intere città fantasma e impianti siderurgici inutilizzati. Sarebbero questi chiari segnali di un eccesso di investimento che porterà tra breve a una catastrofica crisi da sovracapacità produttiva. Questo il parere dell’autorevolissimo “corvaccio” Nouriel Roubini, esperto in cigni neri e grande vaticinatore  del tracollo subprime negli Usa.

In realtà ricerche specifiche in materia, condotte tra vari settori e regioni, non segnalano alcuna evidenza di un declino nel tasso di rendimento del capitale, tipico parametro utilizzato per misurare l’efficienza di un investimento. Lo stock di capitale per persona o per ora-lavoro è ben al di sotto dei livelli prevalenti nelle maggiori economie sviluppate, e carenze infrastrutturali permangono in vasti territori, dagli acquedotti alla rete elettrica.  Roubini e i pessimisti però potrebbero avere ragione, perché anche l’investimento utile deve assecondare la limitatezza delle risorse e le direttive di sviluppo di una società in trasformazione: si devono rispettare delle priorità, e quelle della Cina odierna sono in gran parte dettate dalle problematiche dell’urbanizzazione e di una necessaria crescita dei consumi. Dunque meno industria pesante e infrastrutture per l’export (altamente energivoro, ha esternalità enormi su ambiente e salute e crea poca occupazione), e più reti idriche e fognarie, elettriche, e ferrovie ad alta velocità, metropolitane (in grado non solo di agevolare la logistica e ridurre costi di distribuzione, facilitare la mobilità del lavoro, ma anche di generare tempo libero per maggiori consumi e migliore qualità della vita), ma anche le infrastrutture “soft” del nascente Stato Sociale: istruzione, servizio sanitario, previdenza sociale, cultura e impianti sportivi.

_ la bolla di credito offerto da privati e banche “informali”: la contrazione del credito “ufficiale”, voluta dalla dirigenza cinese e perseguita attraverso successivi rialzi nei tassi di interesse e direttive al sistema bancario, ha razionato la liquidità soprattutto ad amministrazioni locali e piccole e medie imprese, in particolare nel settore dello sviluppo immobiliare. Questo ha favorito l’affermarsi, in particolare nell’ultimo anno, di un ricco sottobosco di finanza informale, prestiti da privati e da istituti non riconosciuti, a tassi estremamente elevati: una manna per risparmiatori costretti ad accettare rendimenti reali quasi nulli o negativi, al tasso ufficiale. Si è così pompata una vasta massa di credito irregolare, sommerso, quasi sempre privo di garanzie. Viene da chiedersi:  a) quali conseguenze potrebbe avere sulla stabilità finanziaria e sull’economia un crack , una vasta insolvenza. b) quale genere di business possa generare ritorni così elevati da giustificare e soddisfare tassi debitorii così stellari: in qualche modo la bolla del credito informale rimanda ad altre bolle speculative.. probabilmente nell’immobiliare.

_ Il settore immobiliare è diventato negli ultimi due anni, forse più dello stesso investimento infrastrutturale, il primo dei sospetti. E’ comunque una industria di vastissime dimensioni, il cui andamento è considerato decisivo per gli sviluppi dell’economia cinese e mondiale, dato l’impatto enorme che ha sul consumo di materie prime: aggregando all’edilizia l’indotto (cioè la componente di investimento infrastrutturale ad essa collegato, la produzione di impianti domestici e almeno parte dell’automobilistico) si arriva a 2/3 del consumo interno di acciaio (ovvero di quel 50% del consumo globale cui ammonta la Cina). L’immobiliare è dunque insieme uno dei motori del pericoloso boom nell’investimento industriale verificatosi a partire dal 2009, e la fonte di una possibile, rovinosa bolla speculativa. Anche qua il dibattito è in corso tra gli analisti, tra quelli che vedono in una serie di parametri un andamento completamente fuori mercato di prezzi e volumi, e l’imminenza di una drastica correzione, con conseguenze destabilizzanti sull’intera economia, e chi sostiene che quei coefficienti non possono essere pesati rispetto al mercato cinese – una realtà che ha un dinamismo economico e demografico incomparabile alle economie del G8 – nei modi consueti. Grattacieli, centri direzionali, interi quartieri e città ora deserti saranno popolati in futuro, secondo gli ottimisti.

Non è facile ricostruire le effettive dinamiche di quel mercato, in Cina, per la carenza di dati attendibili da parte delle autorità centrali e locali, nondimeno a Giugno si è rilevata una caduta dei prezzi nelle nove città più grandi ( -4.9% in un anno), e l’Economist ha tentato di recuperare e sintetizzare i dati grezzi disponibili in un indice comprensivo di settanta città: ne emerge un drastico rallentamento nella corsa dei prezzi, ma comunque un trend in moderato rialzo. In pratica la stretta creditizia del governo starebbe funzionando, inducendo un rallentamento e poi uno stop, forse una graduale correzione nei prossimi mesi e anni. In realtà, per l’immobiliare, i primi effetti di una inversione non si misurano sui prezzi, ma sui volumi e sull’andamento del debito: sperando in una ripresa del mercato molti operatori preferiscono rimanerne fuori (contrazione nel volume degli scambi), attingendo a linee di credito (ufficiale o informale) per pagare i conti. Questo sembra essere proprio quel che è accaduto in questi mesi: l’eventualità di un traumatico redde rationem con crolli dei prezzi, insolvenze a valanga, e seri danni alla stabilità delle banche, non può essere esclusa.

Dove ha fatto rotta in questi anni, a partire dal 2008 della Grande Crisi finanziaria, il Timoniere?  Proviamo a ricostruire la storia.

fra pochi giorni.

Poker cinese sull’Euro

la partita
dell’Euro, la mano cinese

Eppur non si muove – nonostante tutto l’euro regge sui mercati. Mentre la
contraddizione al cuore del sistema, il suo essere primo e unico caso di moneta
che non esprime una sovranità politica, le sta producendo una sorta di collasso
al rallentatore, non si è verificato alcun tracollo nei cambi – in particolare
verso il dollaro. E’ vero, il biglietto verde si trova in una condizione
apparentemente simile, di controintuitiva tenuta a fronte di politiche (da
parte della Fed) e non-politiche (l’impasse tra Congresso e Casa Bianca su
tetto del debito e manovra di rientro dal medesimo) che ne minano la solidità.
Eppure c’è qualcos’altro, dopotutto l’euro fronteggia una minaccia esistenziale
(nessuno si chiede ragionevolmente se il dollaro continuerà a esistere fra tre
o quattro anni). Proprio per questa intima fragilità, anzi inconsistenza, della
costruzione politica dietro la moneta, il cambio incorpora una forte componente
speculativa, aspettative su una crisi politica – prima che finanziaria –
dell’unione. Da qualche tempo nella partita di poker sull’euro è entrato un
nuovo giocatore, la Cina. Un giocatore il cui peso altera significativamente le
aspettative: i flussi valutari sono imponenti, ma sono soprattutto
le vaste riserve in valuta del paese a dissuadere la speculazione da attacchi
in grande stile. Erede di una millenaria sapienza taoista, il Socio Cinese sa
come giocare una partita di poker, che le battaglie si vincono prima di (o senza)
essere combattute, ma anche che non è saggio, nel lungo periodo, andare contro
il mercato. Questo semplicemente riflette, e prepara, il possibile collasso
(geo)politico dell’Unione dietro la moneta, e se dovesse verificarsi il default
greco o una rottura aperta e insanabile nella cittadella politica, l’asse
Berlino-Parigi,  dal varco nella muraglia
le orde speculative dilagherebbero incontrastate, Pechino dovrebbe ritirarsi
dalla difesa, e con gran danno.

L’interesse di
Pechino

Perché la Cina si assume il rischio di questa operazione? Facciamo qualche
ipotesi:

_ l’eurozona è il primo mercato di
sbocco dell’export cinese, ormai anche più importante degli stessi Usa, una sua
destabilizzazione finanziaria ed economica sicuramente si ripercuoterebbe
negativamente sulla “fabbrica del mondo”.

_ è in corso da alcuni anni una graduale
diversificazione delle riserve cinesi dal dollaro e dai treasury bonds (i
titoli del Tesoro Usa) e l’euro, è l’alternativa naturale. Esistono
naturalmente valute più solide in questa fase storica, ma real brasiliano, franco
svizzero o dollaro australiano non offrono mercati finanziari abbastanza
liquidi e sviluppati per le esigenze di un “operatore” come la Cina.

_ c’è una questione di respiro più
strategico: il sistema finanziario globale è entrato da alcuni anni in una fase
di transizione, al termine della quale il dollaro non avrà più la centralità
“tolemaica”che ha nel firmamento attuale. Il renminbi appare destinato a
sostituirlo, nel lungo periodo (se pure non con quel grado di egemonia), ma è
un processo che richiederà alcuni decenni. Attualmente è l’euro l’unico
concorrente serio del dollaro come valuta di riserva e come moneta di scambio
nel commercio internazionale. La sua esistenza offre a Pechino (e non solo) non
semplicemente un “porto sicuro” per investire le proprie riserve in alternativa
ai titoli denominati in dollari, ma anche una sponda fondamentale per mettere
in questione (gradualmente, siamo cinesi) la pericolante (e pericolosa)
centralità del dollaro, prefigurare e cominciare a costruire una architettura
finanziaria globale per la transizione. Se veramente il gruppo dirigente cinese
pensa a un paniere di valute di riferimento per traghettare il sistema globale
dalla crisi strutturale del dollaro a un nuovo ordine (del) Pacifico, è chiaro
che il fallimento del progetto euro renderebbe impercorribile questa rotta.

La moneta unica europea inoltre rappresenta
una soluzione, un partner ottimale, con la sua vastissima base economica,
mercati finanziari sviluppati alle spalle e un potere politico più
inconsistente che soft, apparentemente molto meno risoluto di Washington nel
far valere proprie ragioni e interessi. E comunque la simbiosi cinese, il patto di mutua distruzione assicurata che
lega economicamente e finanziariamente Cina e Usa, se si è rivelato in parte
deleterio per questi, ora appare sempre più pericoloso o almeno inaffidabile
anche a Pechino. Gli anni a venire, inoltre, sembrano destinati a rivelare o
infiammare diverse dorsali di conflitto tra le due superpotenze, primariamente
sulla competizione per le risorse energetiche.

I “no”dell’Unione
Europea

In realtà la dirigenza cinese ha scoperto alcuni anni fa che pure il
rissoso club europeo, la UE, può dire i suoi niet. Forse perché viene da
Venere, come piace pensare ai neocon americani, l’UE non si oppone frontalmente
come fa Washington, piuttosto si nega, ma con conseguenze non meno pesanti.
Alcuni anni fa l’intesa con la Cina si costruiva non nelle sale operative dei
mercati finanziari, ma al massimo livello, quello politico dei grandi accordi
strategici. Il punto più alto fu nel 2003, con la firma del partenariato
strategico e la cooperazione sul progetto Galileo (il sistema di navigazione
satellitare europeo di nuova generazione), un programma di sviluppo industriale
di altissimo profilo tecnologico e politico, con il coinvolgimento dei settori
della sicurezza e della difesa. Negli anni successivi i rapporti si andarono
progressivamente deteriorando, per il peggioramento del deficit commerciale
europeo con la Cina, e una serie di pratiche commerciali scorrette ritenute alla
sua origine – ma anche per passaggi simbolici importanti, come la mancata
revoca dell’embargo UE alle forniture di armi a Pechino (risalente a  Tienanmen, giugno 1989). Nel 2008 si arrivò
così alla esclusione della Cina (il più grande partner non europeo) dal bando
di gara per la “fase due” del Galileo, causa la mancata adozione da parte
cinese di un importante trattato WTO (Organizzazione Mondiale per il Commercio)
sugli appalti pubblici. Conflitti sulla (mancata) tutela della proprietà
intellettuale e sulla concorrenza che Pechino si prepara a lanciare proprio sul
terreno della navigazione satellitare – con un proprio sistema in gestazione –
erano all’origine della rottura, ma è ben possibile che – come sostenuto da
Pechino – abbia giocato un ruolo la diffidenza Usa riguardo all’accesso dei
partner cinesi alle parti strategicamente sensibili del sistema.

Il Dragone per parte sua recrimina pure sul mancato riconoscimento da parte
di Bruxelles dello status di economia di mercato (MES), e sulle connesse misure
europee di protezione antidumping.

Una partita aperta

Queste sono tutte partite aperte tra Cina e UE (ed Eurolandia in
particolare), ma i rapporti di forza sono cambiati, e ora Pechino segue una sua
strada di integrazione economica con l’Europa, più unilaterale. Non si tratta
solo di entrare come azionista dell’euro, nel suo bacino di debito pubblico:
anche fondi sovrani e grandi società (e privati) cinesi investono nelle imprese
europee – per diversificare ma anche per accedere a riserve di know-how e
tecnologia – e nelle grandi infrastrutture (soprattutto porti mediterranei e
del Nord), a supporto del proprio export. La Cina inoltre è cresciuta, ora è
anche un vasto e importante mercato, assolutamente decisivo per l’industria
tedesca,  anche  questo è chiaramente un canale forte di presa
politica sul continente.

Bruxelles però, come si è visto, ha ancora molto in serbo da offrire per una
Grande Entente con la Cina, che la
coinvolga sulle grandi questioni globali di medio-lungo periodo – e l’economia
cinese ha le sue contraddizioni e debolezze finanziarie, con cui deve pur fare
i conti, mentre gioca le sue riserve in valuta nelle grandi partite
geopolitiche.

 

 

nel corso di un anno l’euro si è apprezzato sul dollaro usa
di un 9%, sulla sterlina di un 3-4%, di un 5% sul renminbi cinese. Si calcola
che dall’estate scorsa Pechino abbia investito in attività denominate in euro, ovvero
titoli di debito sovrano o a questo connessi, per un valore di almeno 200
miliardi di dollari. La banca centrale cinese è accreditata di riserve
complessive per un valore di circa 3100 miliardi di dollari, di queste un
quarto è in titoli di debito pubblico europei (un 8% dello stock di debito
complessivo). In particolare la Cina detiene il 12% del debito spagnolo, 12%
del debito greco, 13% del debito italiano.

Se gli Usa rompono il salvadanaio

 

23 June 2011 Paris — International
Energy Agency (IEA) Executive Director Nobuo Tanaka announced today that the 28
IEA member countries have agreed to release 60 million barrels of oil in the
coming month in response to the ongoing disruption of oil supplies from Libya.

La decisione è tecnicamente dell’Iea, di fatto fortemente voluta dagli Usa
e da questi in gran parte sostenuta (il 50% delle riserve coinvolte). Il
comunicato dell’organizzazione spiega che si tratta di una soluzione-ponte in
attesa che le promesse saudite di attingere ai propri margini di capacità
inutilizzata possano concretizzarsi. Effettivamente una interruzione nelle forniture
petrolifere da parte di un importante esportatore (Libia) è in atto, dunque la
decisione Iea è formalmente ineccepibile: alle riserve non si può attingere semplicemente
per calmierare il prezzo del barile. Nondimeno Continua a leggere

Africa 2011 – le città la guerra l’energia

Qualcosa di potente si sta muovendo sotto la pelle dell’Africa. Mentre la scena, dall’Egitto alla Nigeria, dalla Costa d’Avorio al Sudan, è attraversata da nuovi tumulti per il pane e da tensioni di guerra civile, da spaventosi attentati terroristici, si possono osservare movimenti più profondi e possenti, destinati a cambiare volto al continente dimenticato, integrandolo finalmente nelle grandi correnti dell’economia globale.

In questa soglia di decennio vediamo chiaramente due tendenze nuove, sull’energia (che da semplice riserva dell’Occidente si fa expertise e industria capace di produrre valore aggiunto, competere con le multinazionali, e alimentare il decollo economico e sociale del continente) e sulla demografia, con la potente spinta all’urbanizzazione – e una vecchia malattia, la guerra endemica. Continua a leggere